E dopo il terremoto Lu Serpente vide il mare

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 «Norcia, Cascia e Visse: Dio le fece e poi le maledisse» dicevano i vecchi del paese, quando eravamo bambini, parlandoci del terremoto. «Poi voltò la mano, e benedisse Norcia, Cascia e Visse» aggiunge adesso mia madre in uno strano lampo di lucidità, mentre provo a raccontarle con tutta la delicatezza del mondo che diamine è successo «su da noi».
 

È scappata dalla vecchia casa di San Martino di Fiastra la notte del 24 agosto volando per le scale, in mezzo ai calcinacci, lei che quasi non cammina più, insieme a papà, 89 anni fatti ieri. Ma a differenza sua, che è sempre stato presente a se stesso e agli altri, anche oggi, e nonostante abbia visto centinaia di telegiornali e trasmissioni televisive che per la prima volta si sono affacciate in quei luoghi dimenticati delle Marche, non realizza le dimensioni della catastrofe. Meglio così, ci diciamo coi miei fratelli, sennò moriva.

Mamma a San Martino ci è nata, ci è cresciuta, si è sposata. E con papà aveva ristrutturato una casa antica, meravigliosa, piena di mobili e di libri: la casa delle nostre vacanze, del loro riposo da pensionati, e che oggi non c’è quasi più. Ferita dal terremoto di agosto, slabbrata da quello di fine ottobre, scoperchiata, e poi torturata dalle continue scosse e dalla pioggia.

Chissà quanti vecchietti nati e vissuti in quelle nostre bellissime montagne, forse come lei, avrebbero preferito morire piuttosto che vedere questo scempio. Si sono salvati tutti, e li hanno portati negli alberghi della costa. Vicino, ma davanti a un mare che moltissimi di loro non avevano mai visto prima.

Chissà quanti lasceranno questa terra con quel blu negli occhi, così tanto diverso dall’azzurro dei Sibillini che li ha avvolti per tutta l’esistenza. Per la ricostruzione ci vorranno anni e anni, certamente troppi per la maggior parte dei nostri vecchi per avere il tempo di rimetter piede dentro le loro case.

Nelle frazioni di Fiastra, dove il terremoto si è accanito, dalla fine di ottobre non c’è più nessuno.

Hanno portato via perfino Gino «Lu serpente», uno che è campato fino a un mese fa con la pensione sociale e due pecore, mangiando formaggio e vestito con le loro pelli, in due stanze buie. Vederlo sbucare da una fratta e piombare sulla strada, urlando a quelle bestie col bastone in mano, avrebbe fatto paura a chiunque, tranne che a noi. Piccolo, nero, storto, senza denti, e sempre allegro.

Felice come Peppina, che era arrivata ai Moreggini, uno dei piccoli grumi di case di San Martino, settant’anni fa, quando ne aveva venti, e c’è rimasta fino al primo novembre, quando le figlie l’hanno portata via di forza. Il suo Rino, il muratore che aveva ristrutturato tutte le case del paese squadrando con la mazzetta le pietre che il terremoto ha sparso sulle strade e per i campi, se n’è andato da tempo. Peppina aveva scelto di restare lì, per andare a trovarlo al cimitero, accettando la fatica di una vita durissima. Agata e Gabriella, che pure potevano offrirgliela, non l’hanno mai convinta a un’esistenza più facile. Ha continuato ad allevare galline, tacchini e maiali. Giusto un paio, per «fare la pista» e trasformarli in salami, salsicce, lonze e ciauscoli, nutrendoli con una sbobba cucinata nel caldaio appeso sul fuoco, acceso pure d’estate. Ci infilava ogni cosa: avanzi di cibo, ossa, scarti di verdure, patate, barbabietole. Un minestrone dall’odore feroce e indimenticabile, che le ha permesso di accorgersi del cassonetto dell’immondizia dieci anni dopo che il comune l’aveva piazzato in fondo alla strada. Fino a un mese fa Peppina vangava l’orto con le ginocchia gonfie come due meloni, continuava a dare il pane secco alle galline e metteva da parte le «ovette» per chi fosse andato a trovarla.

Se ne sono andati Mario e Giorgia, che con poco più di settant’anni sulle spalle erano i residenti più giovani dei Moreggini. La loro casa, che una volta era la stalla dove da bambino aiutavo Mario e suo padre a mungere le mucche, vendere il latte e a far nascere i vitelli, il 30 ottobre è esplosa. Già dopo il terremoto del 24 agosto, che aveva aperto crepe belle grosse, avevano deciso di scendere verso la piana di Belforte. Tutto sommato ben disposti alla prospettiva del contributo di autonoma sistemazione, 600 euro al mese da aggiungere alla pensione. Il 26 ottobre, quando sono venuti giù i primi muri esterni, avevano cambiato faccia. Hanno dormito in macchina aspettando i pompieri che gli aprissero casa per prendere i vestiti, i soldi, le poche cose di valore e lo schioppo. Poi sono spariti. Anche il loro gatto, l’unica presenza che si aggirava per le macerie dei Moreggini in quei giorni, è stato portato via.

Nelle frazioni di Fiastra oggi vive solo un infinito, rispettoso, silenzio. È l’unica cosa che avverto ogni volta che torno su «per vedere cosa c’è rimasto», per tentare di salvare il possibile insieme a mio fratello, che a vent’anni ha scelto di andare a vivere lì, fa la guida in montagna, vive con poche centinaia d’euro al mese e oggi ha perso quella luce felice che aveva negli occhi.

Tra le macerie si cammina piano, senza parlare, scansando le travi cadute, aggirando i cumuli di pietre e di vecchi coppi che appena si muovono fanno un rumore che rimbomba e ti ferisce il cuore. Facendo giri larghi per stare lontano dalle pareti pericolanti degli edifici, da dove a ogni scossetta cadono pietre grosse come bambini, e per non farsi vedere dalla strada provinciale, perché si rischia l’arresto. La zona rossa non ammette visite. Oggi ci vivono solo volpi curiose, i cinghiali ormai padroni degli orti e dei campi, e i topi di campagna che hanno preso possesso di quello che resta delle case, ammucchiano in ogni angolo le nocciole, la pasta e il riso caduti dai barattoli di vetro sulle credenze, rosicchiano le tovaglie e dormono dentro ai cuscini.

Spesso andiamo in paese, a Fiastra, a vedere se i pompieri non hanno troppo da fare e possono accompagnarci in casa. Qualche volta siamo entrati pure da soli. Dentro si cammina sui cocci e sui vetri rotti, con la luce delle lampade frontali che ogni tanto scivola su crepe larghe un dito e su pozze d’acqua che ristagna nei pavimenti, con i pompieri che ti dicono qui non si può entrare, se arriva la scossa mettetevi sotto questa trave, lasciate libera la via di fuga…

È incredibile quello che può fare un terremoto. Apre un armadio chiuso a chiave e non fa cadere i coccetti sul davanzale della finestra. Ribalta un comò e lascia i quadri appesi alle pareti e i libri sugli scaffali. E ti fa venire una forza spaventosa, incosciente. Tiri fuori cassapanche che pesano quintali, decine di chili di libri, ceste stracolme di piatti buttati lì alla rinfusa, sculture di marmo, quadri. Cinque, sei, dieci viaggi. Prendi una cosa e scappi fuori, prendi fiato e torni dentro. Finché non ti tengono più le gambe, o i pompieri ti dicono adesso basta, oppure finché non senti arrivare l’urlo del terremoto, e subito dopo la scossa. Solo allora ti chiedi se valga la pena fare tutto questo, ma non riesci a darti una risposta. Capisci che è terribile, pericoloso, però i filmini in Super8 sono rimasti dentro, chissà dove.

L’unica cosa che sai, quella che ci hanno insegnato i vecchi e che per un po’ abbiamo tutti dimenticato, è che qui sotto la Sibilla il terremoto c’è sempre stato. Che i paesini e le città, come dice quel proverbio, sono stati distrutti e poi sono rinati più belli di prima. E che sarà ancora così, perché l’amore che abbiamo per questa terra è più potente di qualsiasi terremoto. Senza fare errori questa volta, perché non voglio che i miei nipoti debbano guardarsi in faccia stravolti e increduli come faccio oggi coi miei figli e i miei fratelli.

Mario Sensini

Illustrazione di Sonia Cucculelli

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